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Interviste

La soluzione senza Stato

La soluzione senza Stato
Dialogo con il sociologo palestinese Mohammed Bamyeh e lo scienziato politico israeliano Uri Gordon

Fonte: https://theanarchistlibrary.org/library/mohammed-bamyeh-the-no-state-solution
Opuscolo in italiano scaricabile qui:
soluzione-senza-stato.pdf

Questo opuscolo è la trascrizione di una conversazione avuta dal vivo che è stata registrata il 22 gennaio 2024 nel non riconosciuto territorio Lekwungen nella cosiddetta “Victoria, BC, Canada” occupata. Anche se sono stati corretti alcuni errori grammaticali, abbiamo fatto del nostro meglio per rimanere fedeli alla trascrizione originale dei nostri oratori.

Non va confuso con l’opuscolo No State Solution di Shuli Branson (2023).

AGGIUNTA ALLA TRADUZIONE ITALIANA

Data l’origine del testo, ovvero quella di una trascrizione di un incontro dialogato, alcune parti altrimenti poco comprensibili sono state modificate per rendere il testo più fluido e comprensibile. Alcune parti non inerenti al testo e per nulla rilevanti, sono invece state rimosse. Il genere scelto per la traduzione è quello neutro, eccetto in poche parti del testo in cui si è scelto di mantenere volutamente il maschile sovraesteso.
N.B.

Pur non condividendo necessariamente ogni pensiero riportato da Bamyeh e Gordon, questa conversazione rimane comunque un insieme di riflessioni importanti, non solo per la questione israelo-palestinese –
focus della conversazione –, ma per tuttɜ coloro che si impegnano a sviluppare prospettive rivoluzionarie, intendendo con “rivoluzione” lo stravolgimento radicale dello stato attuale delle cose.

Benvenutɜ alla nostra conversazione con il sociologo palestinese Mohammed Bamyeh e il politologo israeliano Uri Gordon, in collegamento dal Regno Unito. Grazie a Jason e ai Sunset Labs per aver ospitato questo evento. Grazie anche a Camas Books, all’Archivio Anarchico dell’Università di Victoria e all’ANVI per aver contribuito alla realizzazione di questo evento.
Siamo consapevoli di tenere questo evento a pochi passi da un’insenatura all’interno dei territori di origine dei popoli Lekwungen, rappresentati dalle nazioni Songhees ed Esquimalt. Questi territori erano un tempo caratterizzati da foreste e prati di vecchia crescita, dove le popolazioni indigene coltivavano la pianta di camas in fiore, i cui bulbi sono una fonte alimentare fondamentale. La colonizzazione, alimentata dalla supremazia bianca, dal capitalismo e dal potere statale, si è dedicata a espropriare le nazioni Songhees ed Esquimalt dalle loro terre e dalla loro cultura. Di fronte a ciò, siamo solidali con la resistenza, la resilienza e la rivitalizzazione culturale delle nazioni Songhees ed Esquimalt, e ci ripromettiamo di interrompere le strutture di violenza coloniale e di promuovere la decolonizzazione in ogni luogo.
Il professor Mohamed Bamyeh del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Pittsburgh, autore di “Anarchy as Order: the History and Future of Civil Humanity.”.
Il dottor Uri Gordon, autore di “Anarchy Alive!: Anti-Authoritarian Politics From Practice to Theory”, studioso indipendente che ora risiede nel Regno Unito.

Grazie, Mohammed e Uri. Attualmente, in Palestina abbiamo un unico Stato, lo Stato di Israele, che opprime e sfolla le persone palestinesi. Pensate che se venisse istituito uno Stato palestinese, questo risolverebbe il problema?

Mohammed Bamyeh: Quando si parla di soluzioni proposte per il conflitto israelo-palestinese, credo che sia necessaria una complessità di tipo morale. Ci sono diverse soluzioni, ovviamente, che sono state proposte in passato. Ora, io penso, e l’ho già detto in passato, che la soluzione dei due Stati, per quanto impraticabile, sarebbe preferibile allo status quo, all’occupazione. Non è l’ideale ovviamente, e forse non è nemmeno praticabile a questo punto, ma è meglio dell’occupazione. Meglio ancora è la soluzione di uno Stato unico, che si adatta effettivamente alla realtà che abbiamo già.

Ma anche questa sembra essere poco praticabile.
Poi abbiamo la soluzione senza Stato, che a mio avviso è migliore delle due soluzioni precedenti. Quindi, in un certo senso, abbiamo un ordine di preferenze. Non che
io voglia una soluzione senza Stato che mi spinga a non accettare nessun’altra soluzione finché non l’avrò ottenuta. Non credo che questo sia un modo pratico di risolvere i problemi, soprattutto quando ci troviamo di fronte a un genocidio. Ci sono ordini di preferenze.
Quindi, in un certo senso, una soluzione a due Stati risolverebbe alcuni problemi, ma potrebbe continuare a persistere una relazione coloniale, sotto l’apparenza di un altro tipo di struttura.

Si dà il caso che la soluzione dei due Stati sia una soluzione statalista che gode di una sorta di consenso diplomatico e internazionale. Questo non significa che si realizzerà. In definitiva, quello che abbiamo è una politica di insediamento. Ciò significa che si fa una delle due cose. O si espellono le popolazioni di entrambe le parti in gran numero, o si hanno due Stati, ognuno dei quali deve accettare che un numero sostanziale di cittadinɜ provenga dall’altra comunità con pari diritti.

Se ciò accadesse, sarebbe un grande miglioramento rispetto alla situazione attuale. Ma questo non è ciò che è in discussione. Naturalmente, come sappiamo, anche questa soluzione (due Stati) non è mai stata accettata da nessun governo israeliano – non solo da Netanyahu – nemmeno dopo gli accordi di Oslo. Anche allora la soluzione dei due Stati non è mai stata formalmente riconosciuta come la fine del problema.
Attualmente abbiamo uno Stato, che è uno Stato di apartheid non democratico, in cui metà della popolazione che vive nel territorio che controlla non ha alcun diritto.

Esiste quindi un principio liberale e democratico che può essere invocato a favore della soluzione di uno Stato. Naturalmente, si scontra con un altro ostacolo, ossia il fatto che va contro l’immagine sionista fondamentale di una patria ebraica. Ma quando parliamo di una soluzione senza Stato, non credo che si stia parlando di un’idea fantasiosa. E non stiamo parlando di qualcosa di irrealistico in contrapposizione alle soluzioni che vengono proposte e che sono invece ritenute realistiche, cosa che “realtà” a questo punto non sono. Dobbiamo guardare oltre la realtà esistente.

Uri Gordon: Non c’è molto da aggiungere. Una sorta di via di mezzo, ancora una volta, né più né meno pratica di qualsiasi altra soluzione diplomatica, è l’idea di una confederazione, una sorta di confederazione a due Stati in cui le persone cittadine di ciascuno Stato possano vivere nel territorio dell’altro Stato; votare per il parlamento nel loro Stato di cittadinanza e votare per le elezioni comunali nell’altro Stato, consentendo così l’assorbimento delle persone rifugiate in Israele e la permanenza dei coloni.

Si può parlare di una confederazione di tre Stati con la Giordania, si può parlare di trasformare Gerusalemme in un’area internazionale e di spostare la sede delle Nazioni Unite a Gerusalemme. Insomma, tutte queste sono soluzioni diplomatiche plausibili, ma al momento non c’è la volontà politica di attuarle e non c’è alcuna pressione su Israele da parte delle superpotenze per accettare una situazione che significherebbe correggere lo squilibrio, la disuguaglianza e l’asimmetria sul terreno.
E quindi sono d’accordo con Mohammed che la soluzione senza Stato non è meno plausibile delle altre due, solo perché al momento sembrano tutte così lontane.

Ma per me la soluzione senza Stato è un orizzonte, l’unico orizzonte che include la decolonizzazione delle relazioni sociali sul terreno. Perché anche un solo Stato sarebbe comunque uno Stato capitalista e noi continueremmo a immaginarlo lungo una sorta di linea e una specie di società nazionale di classe. Insomma, è impossibile immaginare qualcosa di molto positivo in questo momento. Naturalmente questo mi riporta all’immediata necessità di fermare ciò che sta accadendo e permettere che le cose raggiungano almeno un livello di tollerabilità per lɜ gazawi, a questo punto.

Come sarebbe la liberazione collettiva per palestinesi ed ebreɜ?

Uri Gordon: Che cos’è la liberazione collettiva? Beh, la rimozione dei confini, la distruzione delle armi, la distruzione di tutto il denaro, una società senza classi, l’abolizione del patriarcato e tutto il resto. Insomma, la soluzione alla questione israelo-palestinese alla fine è la stessa soluzione alla questione sociale.

Ma questo è il nostro orizzonte utopico, giusto? A questo punto, questo è qualcosa che ci informa e informa il modo in cui ci organizziamo nei fronti antinazionali e antifascisti. Questo informa il nostro tentativo di avere strutture orizzontali in ciò che facciamo per – anche se non mi piace la parola – prefigurare o avere un’utopia il più possibile concreta in qualsiasi cosa facciamo attualmente in termini di sforzi.

In questo senso, la liberazione collettiva ha un aspetto diverso dappertutto e uguale dappertutto. È qualcosa da cui al momento ci sentiamo così lontanɜ che il massimo che possiamo sperare è di avere una visione nei nostri sforzi quotidiani, anche se si tratta di un livello molto simile a quello dei diritti umani o semplicemente umanitario.

Mohammed Bamyeh: Sono d’accordo con Uri su questo punto. Vorrei solo aggiungere che una forma di emancipazione che immagino e considero ideale è il momento in cui ci emancipiamo da questo impegno nei confronti di un’identità nazionale che, a causa dell’oppressione e della resistenza ad essa, è diventata la nostra caratteristica principale. Questo ha un motivo, ovviamente, perché ci troviamo in una situazione di conflitto e dove i diritti vengono negati o concessi sulla base della nazionalità. Ciò rafforza l’impegno delle persone nei confronti della loro nazionalità e del principio secondo cui i diritti dovrebbero essere concessi esclusivamente sulla base della nazionalità.

Una soluzione ideale sarebbe quella di permettere alle persone di prendere le distanze da questo impegno al nazionalismo, e questo significa risolvere il problema che causa questo attaccamento allo stesso. Ci sono stati alcuni tentativi storici in questo senso prima del 1948. E se si guarda alla più ampia regione del Medio Oriente, in ultima analisi, l’unico momento in cui la regione ha funzionato bene storicamente è stato quando i confini erano aperti o minimi, quando c’era la libera circolazione delle popolazioni e le comunità ebraiche facevano parte del tessuto naturale della regione, non in Palestina ma in Iraq, in Egitto, nello Yemen, in Nord Africa e così via. Le comunità ebraiche vivevano da secoli in vari territori arabi e stavano relativamente bene.
Questa realtà storica è terminata gradualmente con le creazioni coloniali dirette o indirette, quali sono tutti gli Stati della regione. Tutti questi Stati, alla lunga, si sono dimostrati fallimentari, nel senso che l’unico modo in cui possono vivere nella regione è quello di generare conflitti tra di loro e di contendersi l’egemonia senza alcun motivo, se non quello che costituisce la logica dello Stato così come la intendono i suoi governanti. È una logica di Stati che sanno di non avere legittimità, quindi generano legittimità costruendo un nemico, che a sua volta permette a ogni Stato di mobilitare la popolazione sotto la bandiera di un’identità comune contro un nemico esterno.

L’emancipazione consiste nel liberarsi dalla camicia di forza del dominio moderno e della violenza moderna impiantata nella regione attraverso i processi coloniali. La rimozione dell’eredità coloniale in tutta la Palestina è particolarmente urgente.

Mohammed, hai sostenuto che nel corso della storia le persone hanno costruito sistemi anarchici di mutuo aiuto, solidarietà e fiducia che sono parte integrante del nostro benessere collettivo. Vedi dei percorsi per mobilitare questi valori in modo da porre fine al conflitto etnico in Palestina?

Mohammed Bamyeh: È così. Un aspetto importante dell’esperienza storica palestinese è che la società palestinese ha continuato a esistere dopo essere stata danneggiata in modo significativo dal colonialismo d’insediamento e ha persistito anche nella diaspora dopo il 1948. Si è ricreata nei campi profughi, ma anche altrove. La società palestinese si è poi ricostituita riproponendo le tradizioni sociali che già possedeva. Ad esempio, se si osservano i campi profughi in Libano, Giordania, Siria e altrove, e il modo in cui sono sopravvissutɜ tra il 1948 e la fine degli anni ’60 e oltre, si può notare che un fattore che ha aiutato molto è stata la sopravvivenza della cultura dei villaggi palestinesi, dell’aiuto reciproco, del sostegno e della generosità. I diritti di proprietà, ad esempio, nei campi erano riconosciuti in modo informale senza documenti, senza carte, senza che il governo dicesse alla gente chi possedesse cosa.
Persone come Nadya Hajj hanno fatto molte ricerche per documentare come la cultura e i legami tradizionali abbiano permesso alla società di continuare a esistere in condizioni estreme senza il governo e senza alcun meccanismo di controllo.

Ora, non sto sostenendo che quelli fossero gli unici tipi di tradizioni che avevano aiutato la gente a sopravvivere. Ma queste tradizioni sono diventate più spontanee nel nuovo ambiente dei campi profughi, pur rimanendo reciprocamente riconosciute da tuttɜ, anche se alla fine degli anni Sessanta sono state affiancate da un’altra cultura: la cultura rivoluzionaria.

Ecco quindi le moderne organizzazioni rivoluzionarie che operano in tutti i campi profughi, che promuovono principi di leadership non legati all’appartenenza a una famiglia importante, che sono generalmente meritocratici e che operano in tutti i campi profughi. Questa cultura rivoluzionaria convive con la cultura tradizionale dei villaggi delle persone rifugiate.
Non sto proponendo che le tradizioni sociali da sole possano risolvere i conflitti etnici. Credo che questo sia chiedere troppo ad esse, e non è questo che fanno. Ciò che fanno è mantenere la società in uno stato di esistenza e solidarietà in condizioni sfavorevoli. A Gaza, per esempio, e a causa delle difficoltà non di oggi ma di quelle che hanno preceduto di decenni il 7 ottobre, l’istituzione della famiglia allargata è diventata molto più forte, proprio perché è diventata più cruciale per la sopravvivenza della popolazione.

Si tratta quindi di un’istituzione sociale, la famiglia allargata, che ha acquisito importanza in proporzione al grado di sofferenza, rendendo necessaria l’attivazione di tutte le altre istituzioni di mutuo aiuto nella società, compresa la creazione di moderne organizzazioni rivoluzionarie che, anch’esse, hanno assunto ruoli di servizio sociale. Ma l’istituzione familiare è sempre stata presente e le condizioni di disagio hanno rafforzato l’impegno delle persone nei suoi confronti. Quindi, quando parlo di queste tradizioni, è proprio questo il valore che vedo in esse, anche se a volte favoriscono una mentalità conservatrice. Ma il conservatorismo non nasce dal nulla; diventa più solido quando le persone vedono in esso qualcosa che le aiuta a continuare a vivere insieme e a poter contare l’una sull’altra in modo prevedibile.

Uri, tu sei stato coinvolto in azioni di solidarietà per difendere le terre palestinesi dalle incursioni israeliane. Il rifiuto di servire nell’esercito israeliano è una di queste azioni. Puoi parlare di altri tipi di attivismo e del modo in cui interrompono il controllo dello Stato?

Uri Gordon: So che da ottobre e dall’inizio della guerra, l’organizzazione di sostegno ai Refusnik “New Profile” ha ricevuto centinaia di telefonate da giovani che chiedevano consigli su come rifiutare, evadere. Insomma, noi sosteniamo il cosiddetto rifiuto grigio, così come il rifiuto pubblico. Ci sono stati inizi di manifestazioni contro la guerra da parte di ebreɜ israelianɜ. Le manifestazioni dellɜ cittadinɜ palestinesi di Israele sono state represse e impedite molto più duramente. Ieri c’erano alcune decine di manifestanti nel centro di Tel Aviv. Ci sono stati cinque arresti, e si è trattata di una manifestazione esplicitamente contro il genocidio, contro la guerra, a differenza di quelle precedenti che avevano come pretesto la restituzione degli ostaggi o il tentativo massimo di riaccendere la rivolta civica contro il governo Netanyahu. Ci sono alcuni sforzi di accompagnamento e di monitoraggio che stanno andando avanti dove sono presenti dellɜ volontariɜ, soprattutto nelle sponde occidentali delle colline nella Valle del Giordano, che di recente stanno soffrendo. Mi dispiace dire che quella che potremmo definire una sinistra radicale israeliana, forse 20 anni fa, è diventata molto più debole.
Molte persone hanno lasciato il Paese. E al momento non posso indicare molte realtà che siano di grande ispirazione. Ci sono ancora, ovviamente, reti di lotta congiunta israelo-palestinese, ma siamo davvero al punto più basso da questo punto di vista.


Quando pensiamo e parliamo di una soluzione senza Stato, il modello più convincente che ci viene in mente è il Consiglio democratico siriano e l’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale, nota anche come Rojava. Si tratta di una federazione multietnica e multipartitica di distretti decentralizzati e autogestiti che afferma la propria autonomia a livello locale in un modo che si diffonde organicamente. Puoi commentare questo caso?

Mohammed Bamyeh: Credo che questo sia un ottimo esempio. Ne ho sentito parlare molto nel corso degli anni e lo considero un esperimento in corso. Ciò significa che, come tutti gli esperimenti, ci saranno degli errori. Si spera di imparare da essi. Ci sono due cose che vorrei dire sul Rojava. Una ha a che fare con la percezione che il mondo esterno ha di ciò che è il Rojava; in secondo luogo, come il Rojava risuona con altri movimenti di quella che chiamiamo Primavera Araba.
In primo luogo, ci sono rappresentazioni del Rojava come un esperimento curdo, e trovo che sia una rappresentazione problematica. Per esempio, ci sono registi tedeschi che vanno lì e ritraggono come
curdɜ siano grandi, arabɜ siano cattivɜ. C’è una certa dose di razzismo liberale in questa rappresentazione, che trovo davvero discutibile proprio perché va contro lo spirito di ciò che è il Rojava. La rappresentazione di cui parlo non è solo disinformata, prende quello che è un esperimento quasi anarchico e vi appone un’impronta etnica, che distorce la realtà e anche l’intera premessa del Rojava.
In secondo luogo, il Rojava non nasce dal nulla. Nasce da tradizioni sociali e da una certa capacità organizzativa. In effetti, in tutta la regione, vediamo elementi del Rojava ovunque. Se si guarda ai movimenti della Primavera
Araba del 2011 e del 2019, si vede ovunque quello che ho definito un metodo anarchico di ribellione che sembra essere radicato in tradizioni sociali familiari. Non si trattava di movimenti organizzati centralmente; non generavano un partito politico che indicasse loro la strada; sembravano disinteressati alla leadership; si affidavano al coordinamento orizzontale, all’aiuto reciproco e alla spontaneità come arte del movimento. Ora, questi movimenti sono stati criticati a causa di queste proprietà, perché i commentatori che volevano vedere i risultati o l’esito volevano dire che i movimenti della Primavera Araba sono tutti falliti a causa della loro mancanza di organizzazione, a causa del loro anarchismo, ecc. Ma una cosa che mi sembra interessante, dal punto di vista sociologico, è che la gente comune che ha fatto quelle rivolte non era interessata a organizzazioni o leadership o altro, e sembra esprimere qualcosa di più profondo, cioè l’interesse a non essere governata.
Quando si è nella rivoluzione, nel pieno del suo svolgimento, è proprio quello il momento in cui non si è governatɜ. Si gode di questa esperienza e si vuole che sia la condizione della società che verrà dopo la rivoluzione. Naturalmente non è che le persone comuni che hanno fatto le valutazioni arabe abbiano letto libri sull’anarchismo o abbiano usato questo termine per descrivere ciò che volevano. Ma si tratta piuttosto di un anarchismo organico e radicato, che ha sempre fatto parte delle tradizioni sociali insieme a quelle contrarie nelle stesse menti della stessa persona.

Da un lato, ci sono azioni sociali che la gente comune fa nel proprio villaggio, che sono volontarie, solidali e piacevoli. D’altra parte, queste stesse persone possono anche pensare che sarebbe bello se il Paese nel suo complesso avesse un potere dispotico illuminato. Due impulsi apparentemente contraddittori nella stessa mente, nella stessa persona. E se si confronta la Primavera Araba con i precedenti movimenti rivoluzionari, si nota che quelli precedenti avevano un carattere diverso che aveva poco a che fare con l’anarchismo organico. C’è quindi un processo di apprendimento che sta avvenendo in tutta la regione e che ha un carattere intuitivo, nel senso che non è organizzato, non è identificato come tale dalle persone che lo fanno. Ma sembrano avere una memoria storica e di conseguenza un giudizio su come sono stati condotti i precedenti tentativi di liberazione.

Per esempio, abbiamo avuto leadership carismatiche nelle rivoluzioni precedenti, ma non in quelle più recenti. Perché? Perché ci abbiamo già provato e il carisma non ci ha aiutato. Quindi ora un altro trucco per l’emancipazione è generato dalla stessa mente. Perciò quello che sta accadendo in Rojava, a mio avviso, non sta accadendo nel vuoto, e non sta accadendo solo in un territorio. Il Rojava mi sembra un’espressione di un sentimento più ampio che si riscontra in tutta la regione, tutto guidato dal desiderio di un sistema post-despotico, post-tirannico, che include in qualche modo il non essere governatɜ. E ancora, non si tratta di un anarchismo consapevole, ma di un anarchismo organico che finora è stato mescolato con altri modi di pensare nella stessa mente. Mi auguro che il Rojava stia forse chiarendo la distinzione tra questi diversi modi di pensare l’ordine sociale e politico.

Uri Gordon:
Non sono stato in Rojava e non ne so molto. Credo che l’analisi di Mohammed sia stata molto perspicace e potrei aggiungere una cosa: per me non c’è solo il Rojava, ma anche l’esempio delle comunità zapatiste in Chiapas, che di recente hanno subito una sorta di ulteriore decentramento della loro struttura.

E se si guarda a freedomnews.org.uk, Freedom, il più antico giornale anarchico in lingua inglese di cui faccio parte come membro del collettivo, sono stati fatti alcuni servizi su questo tema. Penso che inevitabilmente tutti gli esempi moderni di organizzazione sociale quasi anarchica che abbiamo visto si sono trovati in un qualche tipo di congiuntura geopolitica che ne ha decretato il successo o la possibilità di successo o meno. Se guardiamo al Rojava, voglio dire, alla gente non piace che se ne parli, ma c’è una cooperazione tra il Rojava, almeno le forze armate di quel Paese, e le forze armate americane che lavorano insieme contro i gruppi armati jihadisti.
La situazione ha fatto sì che si trovassero, insomma, in una situazione in cui erano più utili alle potenze mondiali che non a loro. Allo stesso modo, lɜ zapatistɜ e il Chiapas hanno avuto la fortuna o la sfortuna di trovarsi in una delle zone economicamente e geopoliticamente marginali dell’America Latina, dove c’erano condizioni sufficienti per permettere loro di essere più o meno lasciatɜ in pace. Ora, con il rafforzamento dell’attività dei cartelli attraverso il confine tra Messico e Guatemala, stiamo assistendo a un aumento delle minacce nei loro confronti. Quindi si tratta sempre di una combinazione dei fattori citati da Mohammed con una sorta di fattori geopolitici internazionali esterni. Se si può imparare qualcosa di immediato da questo per la situazione israelo-palestinese, beh, lo sappiamo, siamo molto lontanɜ da questo. Come ho detto all’inizio, al momento dobbiamo solo fermare i crimini di guerra. Dobbiamo creare una situazione in cui si crei una sorta di quadro di riferimento, una sorta di involucro che si possa trovare per iniziare a ricostruire in qualche modo una situazione umana sul terreno. Il resto è il nostro orizzonte utopico.


Un valore fondamentale che il Movimento per una Società Democratica promuove è il rinnovamento ecologico, perché quando le comunità riconoscono che questo è nel loro interesse comune, rafforza la cooperazione e la solidarietà. L’attivismo ecologico potrebbe essere una via per sostituire le strutture statali in Palestina?

Mohammed Bamyeh: Credo che questo sia scontato. Ci sono anche alcunɜ israelianɜ e palestinesi che hanno evidenziato questo tipo di coscienza ecologica. In questo momento, però, questa guerra sta portando a un enorme degrado ambientale. Ho appena visto uno studio che parla delle emissioni di gas serra prodotte da questa guerra, compresi gli esplosivi e i trasporti militari ad essi associati. Ho dimenticato la cifra esatta, ma c’è stato un enorme aumento delle emissioni di CO2 dal 7 ottobre a oggi. Questa guerra non sta facendo bene all’ambiente. Inoltre, il modo in cui vengono utilizzate le risorse idriche è sempre stato una parte cruciale del conflitto, in un’area in cui la carenza d’acqua è elevata, e il fatto che i coloni abbiano molti più diritti sull’acqua rispetto alla popolazione indigena.

Quando Gaza era sotto l’occupazione israeliana, ad esempio, c’erano 7.000 coloni ebrei a Gaza e 1,5 milioni di palestinesi. I 7.000 coloni avevano diritto a tanta acqua quanto 1,5 milioni di palestinesi. Se si guarda alla Cisgiordania, la situazione non è molto migliore. Ci troviamo quindi di fronte a un’area che soffre del riscaldamento globale, che aveva già carenze idriche prima dell’attuale crisi climatica, e il problema è destinato a peggiorare. L’unico modo per risolverlo è la cooperazione regionale. Non può essere risolto in altro modo. Una dimensione di questo conflitto riguarderà chi otterrà una maggiore quantità delle stesse risorse scarse. Non mi sembra che l’ambiente ne tragga vantaggio, ma che il conflitto contribuisca alla crisi ambientale globale.

Uri Gordon: Sia l’inquinamento che le possibili soluzioni non conoscono confini. Gli effetti sulle falde acquifere e l’intera situazione degli scarichi e di tutto il resto sono immediatamente collegati alle pratiche di gestione dell’acqua e alla disparità di potere e di allocazione delle risorse idriche nella regione. Un tempo, durante gli anni di Oslo, si pensava che la cooperazione ambientale potesse essere una strada. Spesso, però, questi progetti si sono svolti e si svolgono tuttora all’interno di relazioni di potere molto asimmetriche, senza che la parte palestinese ottenga il tipo di risorse o di potere che le consentirebbe di essere un partner paritario in queste situazioni. Un aspetto che si collega a ciò di cui parlava prima Mohammed è l’idea che pensare in modo ecologico, in termini di bacini idrografici, di biomi, di regioni climatiche, sia un modo per svincolarsi dal pensiero nazionalista e che sia potenzialmente in grado di raggiungere, attraverso questo tipo di angolazione, una visione diversa che non sia più legata a questi aspetti. Ma perché ciò accada, è necessario che ci sia prima un’uguaglianza politica, che la dignità umana sia riconosciuta in egual misura per palestinesi e per israelianɜ.

Possiamo parlare di queste cose come di potenzialità molto positive, ma come le soluzioni diplomatiche, come tutto il resto, niente di tutto questo porterà a nulla finché non ci sarà una massiccia pressione internazionale e un movimento internazionale molto più forte per forzare la mano al governo israeliano.


Data la crescente influenza dell’ebraismo ultraortodosso e dell’Islam fondamentalista, per mancanza di un termine migliore, come pensate si possa costruire una società laica in Palestina?

Mohammed Bamyeh: Ok, beh, è facile. [Risate del pubblico]. È un tema su cui ho lavorato molto, ovvero la religiosità moderna. La mia prospettiva è che quello ciò che chiamiamo fondamentalismo non è il problema. È un sintomo di un problema. Prendiamo ad esempio Hamas. Nel 1948 non c’era Hamas. Nemmeno nel 1967 c’era Hamas. Ma c’era, di fatto, un movimento di resistenza palestinese interamente laico. I movimenti di resistenza in tutta la regione e contro altri governi erano quasi interamente laici fino alla fine degli anni Settanta. Quello che chiamiamo fondamentalismo è un’evoluzione successiva, il che significa che dobbiamo chiederci da dove sia venuto. Non è nato dalle tradizioni sociali esistenti, anche quando la maggior parte delle persone poteva essere considerata “conservatrice”. L’interpretazione religiosa del conflitto è entrata in questo teatro di scontro molto tardi. Hamas è nato in Palestina solo nel 1987, quasi 40 anni dopo l’esautorazione dellɜ palestinesi. Allora il “fondamentalismo” si è offerto come soluzione a un problema che nessun’altrə era in grado di risolvere.
Nel resto della regione, si possono individuare altre pressioni sociali, problemi sociali e dislocazioni da cui è emerso quello che chiamiamo “fondamentalismo” come “l’ultima opzione che abbiamo”. Comunque la si pensi, il fondamentalismo ha espresso in termini religiosi il radicalismo dell’opposizione allo status quo esistente. E questo ha funzionato perché la religione era essenzialmente un discorso liberamente utilizzabile da chiunque. Nessunə ne aveva il monopolio e così è diventato una sorta di linguaggio politico universalmente disponibile per profanɜ e, in generale, per i segmenti apolitici della popolazione. Se si guarda a dove il fondamentalismo è diventato una forza politica, si vedono cose simili. Il fondamentalismo negli Stati Uniti e in Occidente ha una storia diversa di cui potrei parlare se ci fosse tempo. Ma se guardiamo alla regione di cui stiamo parlando, abbiamo fondamentalmente questa sorta di anticolonialismo radicale di Hamas e dei Fratelli Musulmani, che risponde al radicalismo intransigente del progetto coloniale stesso.
Ora, il fondamentalismo è anche un programma flessibile, anche se non sembra. E lo si può vedere se si guarda alla storia dei movimenti che chiamiamo fondamentalisti. Non rimangono con lo stesso programma per decenni. Cambiano.

A volte vogliono rovesciare lo Stato con mezzi violenti. Altre volte partecipano alle elezioni. Hamas nel 2006, ad esempio, si è candidato alle elezioni come qualsiasi altro partito politico e il suo programma elettorale menzionava a malapena la religione, che hanno completamente eliminato. La loro campagna elettorale del 2006, che hanno vinto, era interamente incentrata sulla lotta alla corruzione nell’Autorità Palestinese. Sono stati eletti perché la maggior parte delle persone li ha percepiti come più “puliti”. Non perché fossero più religiosi, ma perché erano percepiti come meno corrotti di altre organizzazioni.
Quindi, in un certo senso, penso che quando ci concentriamo solo sul fondamentalismo in sé come cornice di pensiero, ci sfugge molto di ciò che il fondamentalismo sta facendo nella società. Sono persone con cui credo si possa parlare. Vogliono degli interlocutori, lo so per esperienza personale, ma di solito vengono respinti da persone che si considerano più illuminate e istruite dei fondamentalisti. Questo tipo di atteggiamento porta i fondamentalisti ad appartarsi e a parlare solo tra di loro. In sostanza, penso che sia sbagliato concentrarsi sul fondamentalismo in sé come problema piuttosto che su ciò di cui è sintomo, sul tipo di problema collettivo che lo sta generando.

Uri Gordon: Vorrei rafforzare questo punto dicendo che credo sia un errore anche costruire questa dicotomia tra fondamentalismo e laicismo, o dare per scontato che non costruiremo necessariamente una società laica. Voglio dire, se dovessi vivere sotto uno Stato, vorrei certamente vivere sotto uno Stato laico, ma non un altro Stato religioso. Penso che dobbiamo riconoscere che i quadri religiosi e di fede, nel bene e nel male, sono una parte molto radicata della percezione di sé delle persone, soprattutto della classe operaia. Mi riferisco sia ad ebreɜ che a palestinesi. Penso quindi che l’idea di avere bisogno di Israele o della Palestina per essere un Paese occidentale laico abbia un’impronta di mentalità coloniale.

Penso che si possano immaginare anche una modalità di esistenza multiculturale e persino di democrazia radicale che non si oppongono completamente alla pratica o alla tradizione religiosa e che si muovono in direzione di una maggiore uguaglianza, soprattutto di genere e di altri aspetti. Per me, quindi, non si tratta di rifiutare la fede religiosa o la tradizione, ma di staccarla dal potere politico, di staccare le organizzazioni religiose dallo status di clientelismo nei confronti dello Stato, sia che si tratti di quelle dellɜ colonizzatɜ che di quelle del Qatar, di Israele, dell’Iran, ecc. Ci sono questi legami istituzionali tra il potere nazionalista e la religione che devono essere recisi. Ma non credo che si debba dare per scontato che il laicismo e l’ideale illuministico occidentale siano ciò a cui dobbiamo aspirare.

[Prima domanda del pubblico] Come palestinese in America, l’anarchismo aiuta a descrivere quelle che considero forme storiche e tradizionali di auto-organizzazione araba. Mi chiedo se i relatori vedano l’anarchismo quando riflettono sulla storia del Medio Oriente. Ci sono altri pensatori o movimenti anarchici contemporanei in Palestina o che sono palestinesi?

Mohammed Bamyeh: Per me ci sono due modi di pensare all’anarchismo. C’è l’anarchismo autocosciente, che inizia la sua strada a metà del XIX secolo come corpo organizzato di pensiero, movimento, organizzazioni e massa critica di intellettuali, anche se le idee di base emergono prima e possono essere fatte risalire all’Illuminismo. Esiste poi una storia più ampia dell’anarchismo, che ho chiamato anarchismo organico. Altrɜ hanno termini diversi per definirlo. Kropotkin ne ha tracciato una storia convincente. Lo vediamo come incorporato nelle tradizioni sociali di tutto il mondo.

Nel mio libro sull’anarchismo ho incluso filosofie politiche provenienti da diverse tradizioni mondiali, dalla filosofia politica islamica, dal mondo indù e così via. C’è quindi una storia più ampia dell’anarchismo, se vogliamo vederla in questo modo. E ci sono differenze tra questi due approcci all’idea di vita associativa volontaria. L’ultimo, l’anarchismo organico, è molto evidente se lo cerchiamo. Ma è sempre mescolato con altri approcci alla vita sociale. Quindi si può dire che è un anarchismo “contaminato”, anche se non mi piace il termine “contaminato”. Ma se avete un termine migliore lo userò. Fondamentalmente stiamo parlando di una concezione ideale della vita sociale che si mescola con ingredienti pragmatici. E bisogna distillarla per trovare la “sostanza pura” anarchica, se vogliamo esprimerla in questo modo.

Ci sono anarchichɜ palestinesi, anarchichɜ arabɜ, anarchichɜ iranianɜ e anarchichɜ turchɜ. Anarchichɜ consapevoli in tutta la regione. Vanno e vengono, quindi non si tratta di un movimento politico di massa, ma è presente. Ci sono persone che scrivono di anarchismo nell’Islam e da una prospettiva islamica. Penso che si possa fare anche questo, e che funzioni se si pensa alla religione come a un modo in cui le persone cercano di emanciparsi da altri poteri. Abbiamo anche slogan religiosi come l’appello islamico “Allahu Akbar”, che viene tradotto in modo impreciso come “Dio è grande”, ma letteralmente è “Dio è più grande”.

Più grande di cosa? Beh, non c’è bisogno di dirlo davvero, perché l’implicazione è che Dio è più grande di qualsiasi tirannia con cui vi capita di avere a che fare in un determinato momento della vostra vita. Quindi Dio, che è un’idea invisibile, che non si vede, non si deve vedere, non funziona come un governo, anche se ci sono governi che fanno uso dell’idea di Dio. Ma per lɜ oppressɜ, l’idea di Dio ha la capacità di dare loro la sensazione che là fuori ci sia una forza più potente della tirannia. Nel mio ultimo libro sull’Islam, parlo della Sharia storica come un sistema quasi anarchico.

La Sharia viene tipicamente tradotta come “legge islamica”, anche se in realtà non ha nulla a che fare con l’idea di “legge” come la intendiamo oggi. La Sharia storica ha tre proprietà che la qualificano come un sistema quasi anarchico di vita sociale: ha più scuole, piuttosto che un’unica fonte; ospita giudizi contraddittori, come il diritto moderno non può fare; non è stata delineata da alcun governo o legislatore, ma piuttosto dagli studiosi della religione nella società civile.

Naturalmente, si trattava di un sistema di vita devota che non derivava dallo Stato e aveva molteplici fonti, e si potevano scegliere le regole in base alle esigenze della vita ordinaria. Ciò ha permesso alle persone, storicamente, di condurre quella che consideravano una vita morale sulla quale avevano un certo controllo. Naturalmente, la Sharia storica, con le sue proprietà anarchiche, può diventare oggi un sistema autoritario quando qualcunə la traduce in legge statale, cosa che storicamente non è mai avvenuta. Quindi, in un certo senso, ci sono molti modi per pensare all’anarchismo organico come a qualcosa che è incorporato nelle nostre tradizioni storiche.

Per quanto riguarda la persona che ha parlato all’inizio dell’evento, farò questa domanda ora in modo che abbiate l’opportunità di rispondere. La domanda è: questo evento è dal punto di vista dellɜ palestinesi o dal punto di vista dellɜ anarchic?

Mohammed Bamyeh: Per come la vedo io, non c’è una sola prospettiva palestinese e non c’è una sola prospettiva anarchica. C’è una varietà di prospettive e credo che cercare di imporre un’unica prospettiva a una comunità irrigidisca la realtà che abbiamo. Posso solo esprimere la mia prospettiva palestinese e la mia prospettiva anarchica. Ma non pretendo che lɜ altrɜ palestinesi siano d’accordo o che lo siano anche lɜ altrɜ anarchichɜ. Ciò che ci rende interessanti come come esseri umani, credo, è che abbiamo questa varietà di punti di vista, a differenza di un’intera comunità che ha un solo punto di vista e una sola posizione.

Combinando due domande del pubblico in una sola: perché è così diffusa tra lɜ israelianɜ la convinzione di essere le vittime di un genocidio? Perché una parte così ampia della popolazione israeliana, e anche della popolazione ebraica della diaspora, pensa di essere vittima di un genocidio, piuttosto che pensarlo delle persone palestinesi? Un ulteriore corollario a questa domanda è: perché è così difficile sia per israelianɜ che per ebreɜ della diaspora vedere quanto sia sbagliato a livello politico o umanitario?

Uri Gordon: Non so se la maggior parte delle persone israeliane o ebree pensa di essere attualmente vittima di un genocidio. Voglio dire, penso che ci sia ovviamente un’enfasi eccessiva sulle atrocità di Hamas e talvolta una tendenza a minimizzare la pulizia etnica e i crimini di guerra a Gaza. Penso che ciò avvenga a causa di uno sforzo sostenuto negli ultimi 20 e più anni di quella che è diventata essenzialmente una sorta di acquisizione ostile o meno delle istituzioni pubbliche ebraiche nella diaspora, non solo dello Stato israeliano, ma anche da parte di forze di orientamento repubblicano, se non apertamente fascista, che hanno cercato di identificare lo Stato di Israele con il popolo ebraico per mettere i paraocchi sionisti all’auto-percezione della popolazione ebrea e per dipingere ogni critica al governo israeliano come antisemita.

Il fatto che anche nel movimento di solidarietà palestinese ci siano voci antisemite o una sorta di stupidità in bianco e nero del tipo “il nemico del mio nemico” non aiuta. Ma fondamentalmente, è il risultato di una linea di propaganda molto consolidata che è stata spinta dal governo israeliano, dai suoi alleati nel Partito Repubblicano americano, e che ha acquisito una certa forza all’interno del discorso pubblico, che ha a che fare con l’identificazione della critica a Israele con l’antisemitismo, e che funziona in un certo senso attraverso nozioni costantemente infiammate di trauma collettivo ebraico dall’Olocausto in modi che sono poi distorti per essere applicati in modo errato alla situazione attuale.
Ci sono anche situazioni in cui capisco che lɜ ebreɜ di tutto il mondo possano sentirsi minacciatɜ da alcune espressioni di indignazione per ciò che il governo israeliano sta facendo. Ma credo che il modo in cui
alcunɜ ebreɜ siano arrivatɜ a sentirsi minacciatɜ da qualsiasi opposizione alle pratiche del governo israeliano sia il risultato di uno sforzo di propaganda che dura da molto tempo e che è molto radicato. E, sapete, c’è anche una sorta di messa a tacere concertata delle voci alternative ebraiche e israeliane nei media tradizionali, il che a mio avviso alimenta il problema.

Potete discutere su cosa intendete per “soluzione senza Stato”? Come sarebbe nello specifico? Come la spieghereste a qualcunə che non ha un background del pensiero anarchico? E potete consigliarci qualche opera che ci aiuti a riflettere sulla possibilità di una soluzione senza Stato in Israele, Palestina e nel mondo?

Uri Gordon: Come ho detto prima, si tratta di stabilire quale sia il nostro orizzonte utopico. Che cos’è una soluzione senza Stato? Voglio dire, come può esistere un “nessuno Stato” che ha confini con altri Stati intorno a sé? La soluzione “senza Stato” è qualcosa che include il Medio Oriente e qualcosa che comprende il mondo.

È come se fosse [una società] liberata ed equa, senza confini. Una società senza classi. Non che ci sia un progetto o qualcosa di simile. Siamo ancora in grado di connetterci in qualche modo in questo periodo estremamente buio, e questo può riflettersi sui nostri metodi concreti di organizzare e fare politica insieme, nel presente.

Mohammed Bamyeh: Nel pensiero anarchico, storicamente, c’è stata l’immaginazione di una sorta di mondo ideale costituito da una federazione mondiale di comuni o piccole entità autogovernate. E questo risale a una delle idee originali della democrazia come possibile solo su piccola scala, in contrapposizione ai grandi Stati che abbiamo ora. L’idea c’è, ma la realtà è che abbiamo una mappa del mondo governata dagli Stati e la forma statale della vita politica è l’unica che ci è diventata familiare. Pertanto, immaginiamo l’emancipazione nella forma di uno Stato che sostituisce un altro.

Ma la realtà Senza Stato, se mai ci sarà, è qualcosa che trascende i limiti del possibile di oggi. È qualcosa che può essere stabilito solo con la persuasione. È l’unico programma politico che non può essere realizzato con la forza. Non si può imporre un “non-Stato” a persone che vogliono uno Stato. E questo principio si applica all’anarchia in generale. La logica stessa dell’anarchia prevede che non si possa imporre qualcosa a chi non la vuole.
Questo è ciò che, secondo me, rende l’anarchia eticamente superiore a una prospettiva, in quanto la sua forza è solo la persuasione. Stiamo parlando di un progetto illuministico, se così vogliamo chiamarlo, che acquista maggiore risonanza dalla sensazione che la realtà che abbiamo non funziona.
Gli Stati che abbiamo generano continuamente conflitti perché il conflitto è l’unico modo per continuare a vivere. E questo è qualcosa che sta diventando sempre più evidente, soprattutto oggi. Quindi, in un certo senso, la validità della Soluzione Senza Stato deriva dall’esperienza degli Stati esistenti e dai loro continui fallimenti. E questo è qualcosa per cui bisogna battersi. Ora, il modo in cui questo si realizza, si realizza quando ci sono abbastanza persone che sono convinte della validità dell’idea. E poi, naturalmente, si ha una struttura che emerge da questa convinzione.

Stiamo quindi parlando di un processo pragmatico di adattamento alla realtà. Non è qualcosa che si può proporre in forma teorica prima che cominci a prendere forma dai molteplici fallimenti della nostra realtà attuale; dal diffondersi degli accordi sociali sul non-Stato come soluzione al problema dello Stato o dall’incapacità dell’attuale ordine imposto di fare altro che generare guerre continue e sofferenze indicibili.
Ora,
vorrei spendere due parole sul realismo. In definitiva, il mondo è stato tipicamente cambiato da persone non realistiche. Questo include il sionismo, tra l’altro, perché all’inizio come movimento non sembrava affatto una proposta realistica. Eppure, eccoci qui. Se guardiamo a molti movimenti rivoluzionari, se guardiamo alle rivoluzioni bolsceviche o ad altre, queste sono state avviate da sognatori e sognatrici che non avevano alcun legame con la realtà, la cui rivoluzione non dipendeva da una “analisi accurata della realtà”. Le persone realistiche, che pensavano all’interno del paradigma esistente e della struttura del potere così com’è, tendevano a mantenere la struttura così com’era, perché è a questo che porta l'”analisi realistica”. Si comprende la situazione così com’è, come una struttura, il che significa che non può essere cambiata perché si è capito che è necessaria e inevitabile.
Quindi, quando parliamo della soluzione “senza Stato”, parliamo anche di una prospettiva che non si limita a rifiutare la realtà esistente, ma rifiuta anche il realismo come prospettiva. Se si guarda al movimento di resistenza palestinese e alla sua storia, i suoi episodi più importanti hanno corrisposto proprio a condizioni “non adatte” ad esso: lo sciopero generale del 1936; la mobilitazione nei campi alla fine degli anni ’60 in condizioni completamente disperate dopo una sconfitta; la prima Intifada è nata in condizioni in cui il mondo intero si era dimenticato della Palestina, e così via. Quindi abbiamo movimenti reali che sono notevoli, di cui siamo statɜ testimoni nel corso della nostra vita, che sono avvenuti proprio perché le persone hanno rifiutato il realismo come prospettiva. Ed è proprio di questo che stiamo parlando ora: dell’inadeguatezza della prospettiva realista per prevenire i genocidi.

[Domanda del pubblico] Cosa possiamo fare a livello internazionale per organizzare la resistenza alla guerra e al dominio in Asia occidentale?

Uri Gordon: Ognunə con il suo contesto locale. Sono un grande sostenitore del “pensa globale, agisci locale”. Penso che qualsiasi azione antimilitarista, qualsiasi azione contro il commercio di armi sia in qualche modo automaticamente un’azione di solidarietà con la Palestina, in qualche modo un’azione per il clima, un’azione anticapitalista e così via. La cosa più immediata che le persone possono fare, non particolarmente radicale o rivoluzionaria, è mettere le risorse in un posto utile, ad esempio donando fondi. Ovunque possiamo trovare un movimento palestinese che cerca alleatɜ o complici – chiamatelɜ come volete – che si allineino con il nostro modo di vedere le cose e con cui valga la pena lavorare.
Sta alle persone guardare alle loro condizioni locali e a chi si sta già organizzando sul campo e fare qualcosa più vicino ai loro punti di vista e più vicino a dove possono impiegare le loro energie, oltre al sostegno immediato per le regioni che sono menzionate nella diapositiva.

Mohammed Bamyeh: Vorrei solo sottolineare un aspetto di ciò che è stato detto da Uri, ovvero l’importanza del boicottaggio. Si tratta di una cosa che possiamo fare come individui senza far parte di alcun movimento. Il sistema dell’apartheid in Sudafrica è crollato in gran parte grazie al boicottaggio globale, che si è basato sulla consapevolezza globale che si trattasse di un sistema razzista e immorale che non dovrebbe esistere nel mondo moderno.

Il governo israeliano è ben consapevole dell’efficacia dei boicottaggi e dedica un enorme sforzo per reprimere il movimento di boicottaggio [BDS, Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele]. I politici negli Stati Uniti, così come in Europa, subiscono pressioni per far passare leggi che vietino il boicottaggio, che vietino alle persone di poter semplicemente chiedere di boicottare le istituzioni che terrorizzano il mondo, compresi gli acquisti presso determinate aziende! Ma questo dimostra esattamente che si tratta di un movimento serio, che è anche non violento. La sua efficacia risiede nella sua natura persuasiva e comunicativa.

Hai detto che c’è più di una scuola di pensiero tra palestinesi e più di una scuola di pensiero nell’organizzazione della cooperazione solidale. Un esempio che abbiamo visto qui oggi è quello anarchico. Un altro esempio che mi viene in mente è quello del movimento giovanile palestinese negli Stati Uniti che si è organizzato fianco a fianco con il Partito per il Socialismo e la Liberazione, il PSL o l’ANSUR o il Forum dei Popoli, che sono in gran parte gruppi comunisti marxisti-leninisti che hanno avuto prese di posizione e retoriche discutibili sulle lotte di alcuni popoli come quello siriano, quello afghano, quello uiguro, quello ucraino e così via, il che dimostra ulteriormente la mancanza di una reciproca solidarietà internazionalista. Alla luce di ciò, cosa ha fatto di buono il movimento globale di solidarietà palestinese e dove può migliorare?

Uri Gordon: La sinistra radicale, per quanto ancora in piedi, è stata e continua ad essere favorevole al BDS. Faccio parte di un gruppo che è stato creato, credo entro un anno dall’uscita dell’appello originale, che si chiama Boycott From Within [Boicottaggio dall’interno] e che ha una sorta di sovrapposizione di membri con Israelis Against Apartheid [Israelianɜ contro l’apartheid]. Quindi, c’è un sostegno a questa iniziativa all’interno di Israele.

Ma ancora una volta, la sinistra radicale israeliana è molto piccola e sta combattendo una battaglia in ritirata. Il movimento di opposizione in Israele è in condizioni molto migliori rispetto alla Russia, per esempio. Penso che certamente per le persone ebree israeliane ci sia ancora uno spazio di protesta consentito. Ma la società, le società ebraico-israeliane, la mentalità dell’assedio, il militarismo molto radicato nella società, la sorta di senso perpetuato di minaccia esistenziale che è incorporato nel discorso pubblico, nei media e in tutto il resto, ha fatto sì che almeno la reazione emotiva alla sinistra radicale israeliana sia sempre quella di persone che “sostengono il nemico”. Per voi organizzatori “canadesi”, immaginate come potrebbero pensare di voi in Alberta, e avrete un’idea di cosa possa significare essere un radicale in Israele. [Risate del pubblico].

Credo che qualsiasi soluzione al problema israelo-palestinese inizi e finisca con il governo degli Stati Uniti. I cristiani fondamentalisti hanno un’enorme influenza negli Stati Uniti e sostengono fortemente Israele, oltre a essere essi stessi antisemiti. Come pensa si possa affrontare questo problema?

Uri Gordon: Buona fortuna. Credo che presto conquisteranno la Casa Bianca e noi saremo in grossi guai.

Mohammed Bamyeh: Se posso dire una cosa a questo proposito, è che non possiamo fare affidamento sugli Stati Uniti, anche se ovviamente, se gli Stati Uniti faranno la cosa giusta, il problema sarà risolto. Ma non lo faranno. E nessun altro Stato lo farà. Anche se tuttɜ sanno che, se si parla in termini di paradigma delle relazioni internazionali, si ha un conflitto in cui una parte è molto forte e l’altra è molto debole.
Ciò significa che la parte più forte non ha alcun incentivo a rinunciare a nulla, e quella più debole non ha alcun potere per ottenere il minimo assoluto con cui potrebbe convivere. Quando si ha un’equazione del genere, è necessario un terzo fattore che entri dall’esterno e imponga una soluzione. In genere sarebbero stati gli Stati Uniti, ma la Palestina non è la priorità di nessunə politicə americanə mainstream. Non lo è nemmeno per i governi europei né per quelli arabi.
Pertanto, l’unico terzo fattore che abbiamo è un movimento di resistenza che cambi effettivamente l’equazione. E questa è l’unica cosa che ha sempre funzionato, non nel senso di risolvere il problema, ma nel senso di riportare il problema sulla mappa. Quindi, ogni volta che c’è stato un interesse a risolvere questo conflitto a livello di Stati, ciò è avvenuto solo perché lɜ palestinesi hanno fatto qualcosa di drammatico che ha sconvolto lo status quo. Solo allora gli Stati prestano attenzione e dicono “oh, c’è un problema lì, dobbiamo fare qualcosa”, o almeno fingere di farlo. Oggi sta accadendo la stessa cosa. Prima del 7 ottobre nessunə parlava della soluzione dei due Stati. Tuttɜ parlavano dei cosiddetti “Accordi di Abramo”, che significavano pace tra governi arabi e Israele, dimenticando il popolo palestinesi. Era questa la direzione che stavamo prendendo fino a quando Hamas, qualunque cosa pensiate di Hamas e qualunque cosa abbia fatto, ha almeno riportato la Palestina sulla mappa.
E poi all’improvviso Biden parla della soluzione dei due Stati, in modo del tutto ipocrita, credo, perché in definitiva non sta facendo nulla per realizzarla. E si può dire che anche importanti governi europei, come la Germania, non si sono impegnati realmente per una soluzione e sono stati compiaciuti dello status quo prima del 7 ottobre, anche se affermano il contrario. Ma questa affermazione è pura ipocrisia. Altre potenze europee, più sinceramente interessate a una soluzione, non hanno l’influenza necessaria per realizzarla. Quindi lɜ palestinesi, insieme al movimento di solidarietà, possono contare solo su se stessɜ, come è sempre stato.

 

L’unica dinamica che si ha in questo momento è fondamentalmente l’unica che storicamente ha funzionato, ovvero che i popoli oppressi prendano in mano la situazione e continuino a lottare o a resistere in modi che attirino l’attenzione internazionale e si mettano di nuovo in evidenza. Non è la prima volta che questo accade nella storia palestinese. Si tratta di uno schema ripetuto in cui i popoli oppressi diventano agenti in un processo di lotta, invece di essere oggetti del dominio coloniale.

Quale pensate sia la forza più forte per contrastare la tendenza dellɜ ebreɜ israelianɜ a disumanizzare le persone non ebree e soprattutto le persone palestinesi?

Uri Gordon: Il pesce puzza dalla testa. Il problema è il consolidamento del discorso teologico suprematista e razzista da parte della leadership israeliana. Così come il livello di accondiscendenza all’estrema destra a cui abbiamo assistito, non solo da parte di Netanyahu, ma anche da parte di quella che ora si presenta come l’alternativa centrista. Non si nasce per disumanizzare, giusto? Le persone disumanizzano perché A) non hanno alcun costo; B) perché ricevono strutture di pensiero che le incoraggiano a farlo. Penso che dovremmo pensarci come se, all’inizio di questo secolo, gran parte dell’opinione pubblica americana disumanizzasse lɜ afghanɜ e lɜ irachenɜ: per me le mentalità disumanizzanti sono una sorta di sintomo discorsivo degli effettivi squilibri di potere. È un meccanismo con cui le persone si autolegittimano, per darsi una sorta di modo di conciliare la loro immagine di brava gente con il fatto che vengono commesse atrocità in loro nome. E il modo per riconciliarsi è dipingere le vittime di quelle atrocità come nemici uniformemente minacciosi e pericolosi, sempre maldisposti all’accordo e motivati dall’odio, dall’antisemitismo e da tutto il resto, che può diventare ovviamente una profezia autoavverante.

Insomma, abbiamo visto come il sostegno ad Hamas sia salito alle stelle nelle case palestinesi, grazie a quella sorta di elemento di agency di cui parlava Mohammed, mentre la situazione è stata creata dal rifiuto della parte israeliana di muoversi davvero per 15-20 anni o più. Quindi non credo che la demonizzazione come questione discorsiva possa essere risolta a questo livello, penso che sia sintomatica del tipo di relazioni materiali di potere che esistono.

Per immaginare un discorso diverso, per immaginare una leadership diversa, per immaginare un diverso tipo di ideologia prevalente, abbiamo bisogno, non so, che Israele e la Palestina abbiano qualcosa di simile a un momento sudafricano. Voglio dire, chi lo sa? Sarebbe una cosa molto positiva e che nessunɜ avrebbe potuto prevedere uno o due anni prima del crollo dell’apartheid. Quindi il fatto che il crollo dell’apartheid o il crollo dell’Unione Sovietica siano avvenuti senza che ci fossero grandi aspettative, mi fa ancora sperare. Ma è una briciola molto, molto esigua.

Mohammed Bamyeh: Brevemente, sono in gran parte d’accordo con Uri. Dico solo che per cambiare l’opinione pubblica sono necessarie due cose, o una delle due. Innanzitutto, un processo di persuasione. Possiamo parlare di cosa significhi in termini di come le persone parlano di sicurezza e tutto il resto. Ma la cosa più importante e più efficace è rivelare che la situazione che abbiamo è molto costosa, che l’occupazione non è gratuita. Questo è un aspetto che, a mio avviso, dovrebbe essere costantemente presente. Il fatto che la causa palestinese stesse per essere completamente dimenticata prima del 7 ottobre ha a che fare con la percezione in Israele e fuori da Israele, tra gli altri governi, che l’occupazione non ha importanza perché non costa nulla a nessun governo. Quello che è successo il 7 ottobre ha aggiunto un costo all’occupazione.
Ma fondamentalmente, qualsiasi altro modo di aumentare il costo dell’occupazione, compresi i boicottaggi, ad esempio, può avere un effetto simile.

Quali sono alcune buone risorse per capire cosa diceva Maometto sul fondamentalismo e sul laicismo?

Mohammed Bamyeh: C’è molta letteratura in merito in questo momento. Se posso, consiglierei il mio libro. Life Worlds of Islam (2019) in cui approfondisco le origini di questo movimento, come dovrebbe essere letto e cosa potremmo imparare da questo tipo di analisi. Scusate l’autopromozione. Ma si basa su lavori precedenti di altre persone.

Uri Gordon: Anche per me non si tratta di autopromozione, ma ho sostenuto Mohammed Abdou nella produzione del libro Anarcho-Islam, che tu hai citato prima. È uscito per Pluto Press e contiene una discussione molto approfondita sulle possibilità di una jihad anarchica islamica, quella che lui definisce una sorta di lotta anarchica con le fonti.

L’ultima domanda è per Uri. Il dipinto dietro la tua testa rappresenta questo conflitto?

Uri GordonDio, no. Sì, cioè, so che c’è scritto “coesistere” e cose del genere, ma questo è un poster che ho preso forse 20 anni fa al Museum on the Seam, che è una galleria condivisa tra ebreɜ e arabɜ che esisteva al confine tra Gerusalemme Est e Ovest.

In realtà è un ritratto di un artista tedesco. E no, prima di tutto, perché non credo nella coesistenza, a questo punto credo nella lotta comune e nel destino condiviso di ebreɜ e palestinesi sul territorio e altrove.