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Interviste

Occupazione e veganismo sono incompatibili

Fonte: https://mutb.org/pages/zirkular04-baladi-engl/

Il lavoro per i diritti degli animali in Palestina – un’intervista con Ahlam Tarayra

 

Come si presenta il lavoro politico per gli animali nelle condizioni del regime di occupazione israeliano in Palestina? È effettivamente possibile? Per una buona ragione, l’oppressione del popolo palestinese è un tema importante anche per la sinistra internazionalista e antimperialista. Tuttavia, non si sa molto della situazione degli animali e della lotta per i loro interessi in Palestina. Per questo motivo abbiamo parlato con Ahlam Tarayra del Baladi Palestine Animal Rescue Team, attivo in Cisgiordania. Nell’intervista che segue, l’autrice parla del salvataggio e della cura degli animali di strada in Cisgiordania e a Gaza, di cosa significhi lavorare per cause progressiste in condizioni di occupazione e del “veganwashing” della politica israeliana. Inoltre, spiega perché la lotta contro il regime di occupazione dovrebbe preoccupare il movimento per i diritti degli animali e la liberazione degli animali, come la recente offensiva militare israeliana ha dimostrato ancora una volta.

Ahlam Tarayra vive a Ramallah ed è membro fondatore di Baladi. È anche direttrice di MUSAWA – Centro palestinese per l’indipendenza della magistratura e della professione legale.

Nota bene: a causa della situazione attuale, chiediamo solidarietà e sostegno finanziario sia per Baladi che per l’organizzazione Sulala, che si occupa di salvare e curare animali a Gaza.

 

Ahlam, inizialmente avevamo intenzione di fare un’intervista sull’attivismo per i diritti degli animali e sull’occupazione militare in Palestina. Tuttavia, visti gli ultimi avvenimenti, parliamo della situazione a Gaza e della recente aggressione israeliana. A questo punto – siamo a metà novembre -, circa 12.000 persone sono già state uccise, soprattutto nel nord di Gaza, e gran parte delle infrastrutture sono state distrutte dai bombardamenti israeliani. Migliaia di persone sono state sfollate a sud di Gaza e la situazione umanitaria continua a peggiorare. Al momento, sembra impossibile prevedere come la situazione generale si svilupperà dal punto di vista militare, politico e umanitario. Come hai vissuto le ultime settimane?

Come tutte le persone in Palestina, non sono stata bene. Questo mondo sembra diventare sempre più buio per chi è più vulnerabile. Il più delle volte ho la sensazione che abbiamo perso ogni speranza. Non condividere ciò che la nostra gente a Gaza, sia umana che non umana, sta sopportando mentre è scollegata dal mondo, è straziante, un’agonia. Mi vergogno di avere accesso all’elettricità, all’acqua potabile, a un tetto sopra la testa e alla possibilità di procurarmi facilmente il pane dal negozio vicino in Cisgiordania – privilegi fondamentali di cui la gente di Gaza è stata privata dal 7 ottobre. Mi vergogno di non vivere anch’io l’orrore dei bombardamenti. L’agonia per la complicità dei governi occidentali in questo genocidio è schiacciante. Anche l’estrema rabbia per aver permesso i bombardamenti degli ospedali, tutti in nome dell’autodifesa, mentre in realtà si tratta di una difesa dell’occupazione e di pulizia etnica. Questo trauma ci perseguiterà per sempre.

 

Le aggressioni non si limitano a Gaza: sempre più spesso si verificano attacchi in Cisgiordania da parte dell’esercito israeliano e dei coloni armati di destra. Com’è la situazione lì?

Posso raccontare la mia storia di palestinese della Cisgiordania per far luce su quanto sta accadendo qui. Mi trovavo in Giordania per una notte e sarei dovuta tornare a casa il 7 ottobre, la mattina in cui i combattenti palestinesi hanno iniziato ad attaccare le basi dei militanti israeliani nelle vicinanze di Gaza. Mi sono trovata bloccata in Giordania per otto notti, mentre Israele bloccava i confini. Ogni giorno cercavo di tornare a casa senza successo, finché non sono riuscita ad attraversare i confini, ma questo significava passare la notte per strada in condizioni miserabili con migliaia di palestinesi che condividevano la medesima situazione. Quella settimana, nonostante l’annuncio fuorviante secondo cui le frontiere erano aperte tutto il giorno, Israele ha permesso l’ingresso di soli 1000 palestinesi al giorno attraverso i confini giordani. Questa situazione era dolorosa ed estremamente frustrante, e il radicato trauma generazionale di non poter più tornare a casa mi stava facendo perdere la sanità mentale. Il ritorno a casa alla fine mi è sembrato un miracolo, tanto che non mi sono lamentata di essere stata trattenuta a un posto di blocco israeliano per due ore, dopo che avevo già impiegato 18 ore solo per attraversare i confini.

La Cisgiordania è attualmente sottoposta ad un’altra forma di agitazione. Giorno e notte si susseguono incursioni israeliane in città e paesi palestinesi, arresti di massa, attentati a Jenin e Tulkarem, esecuzioni extragiudiziali e attacchi di coloni che hanno portato all’evacuazione di aree nel sud di Hebron. Questi incidenti hanno anche impedito a molti agricoltori in Cisgiordania di raccogliere le olive, causando un significativo aumento dei prezzi dell’olio d’oliva. Inoltre, le chiusure in corso e i blocchi agli ingressi delle città persistono dal 7 ottobre e continuano ad avere un impatto sulla regione.

 

Come pensi che si svilupperà la situazione nel complesso? E qual è l’obiettivo dell’approccio israeliano?

L’obiettivo di Israele è la pulizia etnica. Questo è stato molto evidente e può essere chiaramente osservato attraverso le politiche e le pratiche coloniali dell’occupazione negli ultimi 76 anni. Non sappiamo come si evolverà la situazione. Molte persone stanno perdendo il lavoro e i mezzi di sussistenza. L’incertezza è l’unica cosa certa ora. Vogliamo che l’aggressione a Gaza finisca, che l’assedio prolungato finisca del tutto e che le persona sfollate vengano riaccolte. L’inverno è iniziato e vediamo le persone sfollate di Gaza chiedere a Dio di fermare la pioggia perché vivono letteralmente all’aria aperta. Condivido la speranza che coloro che hanno commesso crimini di guerra e atrocità contro il mio popolo ne rispondano e siano perseguiti.

Non sono solo le persone umane a soffrire per l’occupazione ma anche gli altri animali, per i quali sei particolarmente attiva: tra le altre cose, hai co-fondato il Baladi Palestine Animal Rescue Team nel 2020. Come si diventa attivista per i diritti degli animali in Palestina?

Beh, credo sia uguale agli altri posti! Si continuano a vivere momenti di compassione e solidarietà con gli animali e a un certo punto si decide di seguire questi impulsi e di agire. I miei genitori erano piccoli agricoltori che prima allevavano pecore e poi gestivano un piccolo allevamento di polli. Ho sempre dato una mano e ho potuto constatare di persona cosa significa per gli animali quando i piccoli agricoltori sono sotto pressione economica e si spingono verso la competitività. Per me era normale, ma mi è sempre sembrato sbagliato allevare animali per la vendita e per il macello. In seguito, dopo essere andata in Inghilterra per i miei studi e aver conosciuto la vendita di pezzi di pollo confezionati industrialmente, avevo già grandi inibizioni a mangiare carne di pollo. Ma c’è stata un’esperienza particolarmente formativa: i miei genitori hanno avuto a lungo alcune pecore e l’ariete più vecchio era il loro capo e aveva un nome. A un certo punto ha sviluppato un comportamento aggressivo e ha ferito mio padre, che ha deciso che non era più halal venderlo. Così lo fece macellare. Organizzò un barbecue e, in quanto figlia maggiore della famiglia, fui costretta a mangiare per prima la carne. Ma non riuscii a mandarne giù nemmeno un boccone e il pensiero di mangiare l’ariete con cui avevo vissuto per tanto tempo mi fece quasi vomitare. Quella fu l’ultima volta che mangiai carne rossa. Sono diventata vegana solo più tardi, ma da quel momento non ho più potuto mangiare carne di montone perché tutte le pecore mi ricordavano l’ariete della mia famiglia.

Il fatto che non fossi ancora vegana era dovuto più che altro a ragioni sociali: non volevo disturbare i miei amici e la mia famiglia. Tuttavia, stavo già iniziando a prendere coscienza del veganismo e del benessere degli animali. A un certo punto sono diventata attiva nel lavoro di salvataggio. In quel periodo ho deciso di diventare vegana e di sostenere attivamente i diritti degli animali.

 

Hai anche co-fondato l’associazione Vegan in Palestine (ViP) nel 2020. Come si presenta il tuo lavoro? Di cosa vi occupate?

Vegan in Palestina è l’associazione all’interno della quale opera il progetto di salvataggio Baladi. Il nostro obiettivo con ViP è quello di promuovere la consapevolezza che il veganismo sia una risposta compassionevole e responsabile alle preoccupazioni etiche riguardanti gli animali, l’ambiente e la salute. Organizziamo eventi per presentare versioni vegan di cibi tradizionali e popolari. In particolare, abbiamo lanciato in Palestina il primo labneh vegano, la tradizionale crema di formaggio, che non ha nulla da invidiare alla sua controparte casearia. Inoltre, ci proponiamo di sfidare la pratica della macellazione degli animali in generale e durante le occasioni religiose, considerandola una norma o una pratica obsoleta che può essere sostituita da approcci più compassionevoli e solidali.

 

Baladi lavora principalmente con gli animali di strada: come tu stessa scrivi, organizzate “servizi di adozione, visite veterinarie sovvenzionate per gli animali di strada, educazione sui diritti degli animali e sulle misure di sicurezza in Palestina”. Nelle città palestinesi, molti cani in particolare vivono per strada, spesso in condizioni pessime. Questo è il fulcro del vostro lavoro. Perché?

Perché questa è praticamente la preoccupazione principale. Nel mondo occidentale, il movimento di liberazione animale può concentrarsi sugli animali allevati e uccisi per l’industria, perché l’industria della carne è l’attore principale. Per i cani e i gatti che vivono per strada, ad esempio, esistono almeno delle leggi che vietano di mangiarli o maltrattarli. In Palestina, come in altri luoghi del mondo, la situazione è diversa. Oltre all’industria animale, un grosso problema riguarda soprattutto il maltrattamento di cani e gatti. La situazione dei gatti e soprattutto dei cani per strada è pessima. Dal punto di vista legale, non esiste quasi nessuna protezione per gli animali di strada. Il loro maltrattamento è punibile solo in modo poco specifico, e il maltrattamento di un animale è punito con una multa di soli cinque dinari giordani, l’equivalente di 7 dollari americani – se il maltrattamento viene denunciato. In generale, quindi, non c’è quasi nessuna compassione per gli animali di strada. Ciò è rafforzato da fattori culturali e religiosi, perché i cani in particolare sono considerati animali impuri nella cultura araba. Inoltre, è diffusa la convinzione che il presunto problema dei cani di strada possa essere “risolto” semplicemente sparando o uccidendoli in altri modi. Purtroppo, questa convinzione è stata ed è tuttora diffusa da quasi tutte le autorità, compresa l’Autorità Palestinese.

 

Sembra che vogliate anche creare consapevolezza per gli animali randagi.

Esattamente. Dal punto di vista del movimento per i diritti degli animali, non ci si può concentrare direttamente sull’industria della carne e ignorare la questione degli animali di strada. Inoltre, la loro condizione offre maggiori opportunità di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione animale nella vita di tutti i giorni: Molte persone qui, ad esempio, credono che le condizioni degli animali allevati in fattoria siano buone e in qualche modo più “naturali”. Noi chiariamo che questo non è vero e che gli animali sono trattati come strumenti. Anche il modo in cui vengono tenuti e macellati non è halal dal punto di vista religioso, come molti amano credere. Per questo cerchiamo di creare compassione e trasmettere il fatto che gli animali siano creature simili a noi. Da qui il nostro nome: “baladi” può essere tradotto come “nativo” e richiama l’attenzione sul legame tra natura, umani e animali. Per noi, quindi, aiutare gli animali di strada è un modo per far sì che il problema degli animali diventi un problema anche qui.

 

È impossibile parlare di lavoro con gli animali in Palestina senza parlare dell’oppressione causata dall’occupazione israeliana. È onnipresente e non c’è aspetto della vita quotidiana che non ne sia in qualche modo influenzato, sia politicamente che storicamente o materialmente. Che impatto ha il regime di occupazione sulla situazione degli animali e sul vostro lavoro in Cisgiordania?

Per quanto riguarda gli animali, l’occupazione militare comporta una generale mancanza di risorse per il lavoro quotidiano con gli animali di strada, ad esempio. Questo riguarda noi personalmente, ma anche, ad esempio, i veterinari qui in Cisgiordania. A causa dei posti di blocco e del divieto di importazione di alcuni farmaci, mancano le medicine utilizzate dai veterinari, i materiali e i tranquillanti di cui abbiamo bisogno per prelevare e curare gli animali di strada in preda al panico. Mancano conoscenze, materiali, infrastrutture e locali. Chi ha la possibilità ricovera gli animali in Israele, perché lì le strutture di cura sono più avanzate.

 

È possibile un lavoro “puro” per i diritti degli animali in queste circostanze?

No, non lo è, e per diverse ragioni. Inizio con un piccolo esempio storico: Qualche tempo fa, un amico mi ha inviato un estratto di un libro che documentava un’organizzazione palestinese fondata a Jaffa già negli anni Venti, cioè molto presto. L’organizzazione si batteva per la causa animale – cosa che sembrerebbe impossibile nelle circostanze attuali. Se si confronta questa situazione con quella odierna, si capisce cosa ha cambiato la tragedia della colonizzazione della Palestina: ha fatto arretrare in modo massiccio questa e altre questioni progressiste e ad oggi rende difficile fare campagne per esse – questo vale per la causa animale così come per altre istanze progressiste.

 

In questo contesto, molte persone probabilmente direbbero: prima bisogna occuparsi dell’occupazione, tutto il resto viene dopo.

Sì, ma non sono d’accordo. Da un lato, l’occupazione ha un impatto negativo su tutte le preoccupazioni progressiste ed emancipatrici – come nel nostro caso – attraverso restrizioni politiche e materiali. Dall’altro lato le condiziona politicamente, perché diventa la questione centrale di fronte alla quale molte persone pensano di dover mettere le altre preoccupazioni politiche all’ultimo posto della lista: Dicono che non si può affrontare il tema della giustizia di genere finché c’è l’occupazione, non si può affrontare il tema del capitalismo finché c’è l’occupazione, non si può parlare di questioni LGBTIQ+ o di altre questioni progressiste senza la fine dell’occupazione. Non sono d’accordo. Tuttavia, questa situazione significa che ci troviamo di fronte al compito di combinare le preoccupazioni progressiste con la lotta per la fine dell’occupazione, sotto entrambi i punti di vista. Ma credo che mettere in secondo piano e rimandare gli obiettivi progressisti sia l’approccio sbagliato.

 

Hai detto che molte persone portano i loro animali in Israele perché lì le cure sono migliori. Ma Baladi non lavora con le ONG israeliane per una questione di principio. Perché?

Perché vogliamo ridurre le dipendenze e le asimmetrie. A nostro avviso, la cosa migliore che le organizzazioni animaliste e per i diritti degli animali in Israele possono fare, date le circostanze appena descritte, è prendere posizione politica contro l’occupazione per migliorare la situazione delle organizzazioni palestinesi. Dovrebbero fare la loro parte per garantire che le organizzazioni come la nostra alla fine diventino meno o non più dipendenti dal sostegno di Israele. Quindi questa politica riguarda l’auto-emancipazione e la possibilità per le organizzazioni palestinesi di agire in modo indipendente. Tuttavia, non condannerei mai chi cerca contatti con organizzazioni e ONG israeliane per fare il meglio per il proprio animale. È del tutto comprensibile e la situazione di carenza crea ripetutamente dilemmi.

 

Com’è la situazione a Gaza? Al momento è difficile prevedere come si evolverà la situazione. Tuttavia, anche prima dell’ultima escalation e del bombardamento di Gaza da parte di Israele, la situazione dell’approvvigionamento umanitario era già catastrofica a causa del blocco e dell’interdizione. Com’è la situazione per gli animali?

Lavoro per un progetto in collaborazione con un’organizzazione delle Nazioni Unite, e in questo ambito ho avuto la fortuna di ottenere il permesso di entrare a Gaza quattro volte finora, potendo quindi vedere la situazione di persona. In generale, la situazione degli animali, compresi quelli di strada, è estremamente grave a Gaza. Ciò è dovuto principalmente al blocco. Tra le altre cose, come la mancanza di medicine e materiali per le cure, significa che un numero maggiore di animali, ad esempio gli asini, vengono utilizzati dalle persone come animali da lavoro – e le condizioni che ho dovuto osservare erano a volte davvero difficili da sopportare. Alcuni animali sono in condizioni estremamente critiche, ma questo non è praticamente un problema perché lì si tratta di vita quotidiana e le circostanze spesso non permettono altro. Per esempio, ho visto un asino che era completamente affamato e mal nutrito, ma allo stesso tempo completamente sovraccarico di beni di trasporto. Cose del genere accadono perché molte persone non hanno accesso alla benzina – le importazioni sono fortemente limitate da Israele – o non sono in grado di pagarla, e anche l’elettricità viene regolarmente tagliata per molte persone. In generale, a Gaza non esiste una classe media tipica: ci sono alcuni ricchi, ma la maggioranza assoluta è molto povera. Di conseguenza, molte persone non possono permettersi di prendersi cura degli animali in modo adeguato e li usano come animali da lavoro a causa della mancanza di risorse.

Ma ho anche conosciuto la Sulala di Gaza – l’unica organizzazione a Gaza, per quanto ne so, che lavora con gli animali. E sebbene la situazione a Gaza sia generalmente catastrofica, il lavoro di Sulala è ancora più avanzato e completo di quello che facciamo in Cisgiordania. A Baladi ci concentriamo sugli animali feriti e più deboli che troviamo. Sulala, invece, adotta l’approccio di salvare davvero tutti gli animali bisognosi senza eccezioni, anche se le loro risorse sono davvero molto limitate. Se si chiama e si segnala un’emergenza, cosa che alcune persone fanno, loro arrivano e fanno del loro meglio. Sono rimasta davvero colpita da come lavorano bene con gli animali in condizioni di assedio, anche se la squadra non è composta per lo più da persone addestrate. Hanno persino avuto successo a convincere l’amministrazione locale della loro comunità a interrompere la politica di avvelenamento e abbattimento degli animali di strada, e hanno ricevuto un pezzo di terra dall’amministrazione per ospitare e curare gli animali salvati – cani, gatti, ma anche asini. Durante gli ultimi attacchi militari israeliani, Sulala ha dovuto abbandonare il suo terreno e fuggire, e purtroppo al momento non abbiamo contatti con il team. Uno dei membri dello staff di Sulala è stato ucciso in un bombardamento israeliano il primo giorno dell’aggressione.

L’aggressione israeliana in corso contro Gaza si è abbattuta su tutti gli esseri viventi, compresi gli animali da strada, da allevamento e da lavoro. Si può dire che tutte le aree di Gaza sono state bombardate, comprese le zone residenziali, dove alcune persone avevano animali che vivevano con loro. Ora che la fornitura di carburante a Gaza è stata interrotta con l’inizio dell’aggressione, gli animali da lavoro, come asini, muli e cavalli, sono sempre più utilizzati per trasportare le famiglie sfollate o portare le persone ferite negli ospedali. I carri trainati dagli animali vengono ora riutilizzati anche come veicoli mortuari. Nei pressi dell’ospedale di Al Shifa, mentre i carri armati israeliani si avvicinavano e venivano sparati e bombardati pesantemente, un medico ha riferito che cani e gatti di strada, insieme a migliaia di palestinesi assediati, hanno cercato rifugio nell’ospedale. Persone sfollate sono state osservate mentre portavano con sé i loro animali da compagnia, ma è probabile che molte altre abbiano dovuto abbandonare i loro animali durante l’evacuazione.

 

Il governo israeliano sta lavorando duramente per promuovere Israele come “paradiso vegano”, al fine di coltivare un’immagine di Paese “progressista” e particolarmente tollerante – una pratica che viene anche definita “veganwashing”, analoga al “pinkwashing”. Ad esempio, viene pubblicizzato ufficialmente che l’esercito israeliano è “l’esercito più vegano del mondo” e che i soldati possono essere equipaggiati con scarpe in pelle vegana.

Sì, si tratta ovviamente di una misura di propaganda per ottenere la simpatia del movimento vegano e in generale delle persone liberali e progressiste. Per questo motivo, anche il governo israeliano collabora con molt* influencer vegan. Alla fine, la designazione di “paradiso vegano” è in realtà dovuta solo al fatto che Tel Aviv ha un numero particolarmente elevato di punti di ristoro vegani. Questo è bello, naturalmente, ma da questo punto di vista anche la Cisgiordania è un paradiso vegano: dopo tutto, qui si possono trovare falafel ad ogni angolo di strada, è solo normale cibo di strada!

Tuttavia, se si intende il veganismo non solo come dieta o stile di vita, ma come conseguenza di una politica di solidarietà volta all’abolizione dello sfruttamento e dell’oppressione di tutti gli esseri viventi, allora è fondamentalmente in contrasto con le politiche statali di oppressione. È del tutto ridicolo sostenere una politica in cui le persone sono oppresse e regolarmente uccise a sangue freddo da un lato, e allo stesso tempo preoccuparsi se i soldati ricevono pasti vegani o indossano scarpe di pelle vegane. La politica di occupazione e il veganismo sono incompatibili.

Dobbiamo quindi sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che Israele stia strumentalizzando lo stile di vita vegano apolitico di molte persone. Contrariamente alla propaganda del “veganwashing”, in Israele si consuma anche molta carne e latte. L’industria della carne è estremamente forte e l’esempio del nostro lavoro dimostra che anche gli animali soffrono a causa dell’occupazione. Ma naturalmente non basta essere vegan e attivista per i diritti degli animali e battersi solo per gli interessi degli animali in Palestina: chiunque sia veramente intenzionat* a lottare contro la sofferenza e l’oppressione deve anche schierarsi a favore del popolo palestinese oppresso.

Mi chiedo cosa pensano le persone vegane apolitiche dei soldati israeliani vegani che bombardano i palestinesi, animali umani e non umani, nell’attuale aggressione. Mi chiedo davvero come sia possibile per un essere umano definirsi vegan, eppure uccidere indiscriminatamente esseri indifesi e innocenti, e per esseri intendo sia umani che animali. Ho visto un post di un vegano israeliano molto preoccupato per la carenza di pasti vegani forniti ai loro soldati a Gaza. Sappiamo che non si preoccupano dei palestinesi e che ci hanno disumanizzato in ogni modo possibile per giustificare le nostre uccisioni, ma è inquietante vedere quanto siano determinati a mantenere la loro propaganda vegana mentre in realtà uccidono animali ogni giorno nella loro aggressione a Gaza.

 

Hai citato l’industria della carne israeliana. È generalmente noto, ad esempio grazie alle pubblicazioni delle organizzazioni sindacali o dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che l* operai* palestinesi nell’economia israeliana sono talvolta sfruttat* in modo particolarmente palese. Poiché hanno uno status particolarmente precario a causa di permessi di soggiorno insicuri, devono accettare salari più bassi, oltre al fatto che hanno minori opportunità di rappresentare i propri interessi. Sapete se questo accade anche nell’industria della carne in Israele?

Per quanto ne so, non si sa molto dell’industria della carne israeliana e non ci sono state ricerche al riguardo da parte di attivist* israelian* per i diritti degli animali. Tuttavia, posso confermare quanto da te descritto in merito alla situazione di palestinesi che lavorano in Israele. Se si vuole ottenere un permesso di lavoro per le aziende israeliane, di solito bisogna pagare molti soldi agli intermediari per ottenerlo, e ovviamente sono pochissime le persone lavoratrici che ce l’hanno. Molte si trovano quindi lì illegalmente per lavorare e devono sopportare forme estreme di sfruttamento: la paga è al di sotto del salario minimo israeliano, devono fare lavori pesanti e accettare orari di lavoro più lunghi, e sono anche costantemente vulnerabili al ricatto, perché gli imprenditori possono minacciare di denunciarl*, il che comporterebbe multe o addirittura il carcere e il divieto di entrare in Israele per diversi anni. Questo sistema crea anche diverse spaccature all’interno dell* operai* palestinesi, la cui posizione nell’economia palestinese differisce l’un* dall’altr*. Ma come ho detto, posso solo fare ipotesi sull’industria della carne israeliana. Purtroppo, anche in Israele gran parte del movimento per i diritti degli animali si dedica esclusivamente alla causa animale e non fa distinzione tra chi lavora nell’industria e chi è padrone della stessa, per cui la situazione e gli interessi della classe sfruttata non vengono presi in considerazione.

 

Oltre alle donazioni e al sostegno finanziario, qual è il modo migliore per sostenere il vostro lavoro? Cosa si aspetta dal movimento internazionale per i diritti degli animali?

Naturalmente il sostegno finanziario è utile. Inoltre, ci aiuta soprattutto quando le persone attirano l’attenzione sul nostro lavoro. Penso che quanto più siamo collegat* e conosciut*, tanto più possiamo muoverci ed eseguire il nostro lavoro. Siamo un piccolo team e attualmente stiamo ancora costruendo. Più siamo posizionat* bene, più persone possiamo raggiungere a livello locale. Vogliamo anche rafforzare il nostro lavoro con gli animali come contributo alla liberazione della Palestina. Ci aspettiamo che il movimento per i diritti degli animali non si chiuda a riccio di fronte a questo problema, ma che consideri la lotta contro l’occupazione israeliana e per la liberazione della Palestina come qualcosa che dovrebbero sostenere. Non si può difendere la liberazione di umani e animali e tacere sulla colonizzazione della Palestina.